





Le immagini che compongono il progetto sono fotografie di fotografie, ovvero ritratti rifotografati e isolati dal proprio contesto, selezionati per il loro stato di decadimento e di evanescenza. Il lavoro è stato eseguito secondo quella che Joan Fontcuberta definirebbe un’adozione nei confronti delle immagini. Egli, infatti, nel suo testo La Furia delle Immagini scrive così:
«Appropriarsi di qualcosa significa “catturarlo”, adottarlo significa invece “dichiarare di aver scelto”. Nell’adozione prevale l’atto dello scegliere su quello del privare. Adottare, quindi, mi sembra un proposito genuinamente postfotografico: non si reclama tanto la paternità biologica di un’immagine, quanto la sua tutela ideologica (cioè la prescrizione di senso)»
(Joan Fontcuberta, La Furia delle Immagini, Einaudi, 202, I ed 2018, p.53)
Si possono dunque adottare immagini così come si adottano le idee, ovvero adottando un’immagine per un determinato valore che essa possiede: intellettuale, simbolico, estetico, morale, spirituale o politico. Eseguendo questo atto di adozione si riconosce all’immagine un valore simbolico.
La scelta di questo tipo di immagini è derivata da sopralluoghi spontanei nei cimiteri, molto spesso i cimiteri monumentali, e dall’osservazione dei ritratti posti sulle lapidi. Le fotografie qui rifotografate appartengono a lapidi degli inizi del secolo scorso e dalla loro osservazione sono nate spontanee alcune riflessioni sul medium fotografico stesso, ma anche sulla nostra identità.
A catturare dunque l'attenzione sono stati quei ritratti che, non avendo alcun tipo di “schermo” a proteggerli dagli agenti esterni, si trovano adesso in uno stato di “decadimento”. Questo stato, sul momento, colpisce il nostro interesse per due motivi: in primo luogo, lo stato del decadimento risulta particolarmente “aggressivo” nei confronti del volto e meno sui dettagli minori e più terreni come i vestiti, e poiché il volto, soprattutto in questo caso, è la rappresentazione di chi siamo, nascono allora spontanee una serie di riflessioni sulla nostra identità. Considerando, inoltre, che sulla maggior parte delle tombe scelte, gli stessi nomi e dati riportati sono tutt’oggi illeggibili, l’immagine rimane l’ultima sopravvivenza, perlomeno pubblica, del singolo individuo. Nonostante per l’identità originale ogni individuo sia separato e lontano dall’altro, qui sono adesso riuniti dalla fotografia e diventano tasselli di un’unica immagine più grande.
Nascono dunque una serie di domande riguardo a noi stessi e il nostro legame con le immagini: quale rapporto abbiamo con la nostra immagine riprodotta? Speriamo che essa ci salvi dall’oblio? La scomparsa fisica della nostra immagine, porta alla totale cancellazione della nostra esistenza? Ma il medium, già a priori, possedeva davvero questa caratteristica salvifica? Le immagini, quindi, hanno veramente una vita propria?
In secondo luogo, ritengo che queste immagini sottolineino anche la matericità delle fotografie, svelando la chimica che le compone. Le immagini non sono qualcosa di avulso dal mondo materiale ma sono anch’esse soggette alle sue leggi.
In un'epoca in cui le immagini sembrano incorporee e inafferrabili, siamo posti davanti all’origine chimica che sta alla base della fotografia e che ne svela tutta l'essenza materica.
Le immagini sono state scattate su gentile autorizzazione rilasciata dal Cimitero di Trespiano, Firenze, e fanno parte di un progetto più ampio, qui mostrato solo parzialmente.